A quindici anni di distanza dal giorno che ha cambiato irreversibilmente la storia del mondo occidentale, dedichiamo un approfondimento speciale di Screenema al cinema post 11 settembre.
Anche il modo di far cinema infatti è cambiato in un paese che ha dovuto fare i conti con il cavallo di Troia più subdolo dell’era contemporanea e la paura del vicino alieno.
Per farlo vi presenteremo tre film su tutti, Zero dark thirty, My name is Kahn e Molto forte, incredibilmente vicino.

L’attacco alle Torri Gemelle non ha precedenti nella storia considerando che è avvenuto nell’era della comunicazione globale e per la prima volta la realtà dell’attentato ha superato la fantasia di qualsiasi film kolossal apocalittico. Da ogni parte del mondo tutti hanno assistito contemporaneamente ad una guerra che si stava consumando sotto i propri occhi, nelle proprie case, non c’era più nulla di alieno e lontano. Per contro è sfumata l’idea del sogno americano, del riscatto, così queste storie di ascesa in letteratura come al cinema, sono state compromesse.
L’11 settembre è stato l’evento più spettacolare, più traumatico e più mediatico del XXI secolo, superando l’idea di qualsivoglia produttore o regista cinematografico. Cosa resta allora ai linguaggi artistici, cosa resta al cinema?

Sicuramente il potere di immaginazione che genera la compassione. Il poeta polacco Zbigniew Herbert dice che «l’immaginazione è strumento di compassione», qui subentrano i narratori di storie. Non è infatti la quantità di informazioni che conta ma il modo di raccontarle di un regista che fa propria la storia, anche quella degli eventi epocali. Non ultima Kathryn Bigelow.

Il cinema di Kathryn Bigelow è donna. Lo sono anche la solitudine, la guerra, la verità, la ricerca e l’ossessione. Quelle di Maya/Jessica Chastain, agente dell’FBI alle prese con una folle missione: catturare Osama Bin Laden, dieci anni dopo l’11 settembre.

La solitudine di Maya è allo stesso tempo quella manifesta di una donna sola in un mondo di uomini e quella privata di chi, come lei, è l’unica a credere nella fattibilità di una cattura epocale. sarà duplice anche la sua guerra: quella storica, al terrorismo e quella personale della battaglia contro le paure più intime. Entrambe con il fine ultimo del disvelamento di una verità bifronte: la verità raccontata, da una parte e la verità della realtà, dall’altra. Con questo obiettivo, la ricerca di Maya si fa ossessione. Ricerca ossessiva Di Bin Laden e di se stessa affinché la cattura possa dare un senso anche alla sua vita.

La titolazione dei singoli capitoli della vicenda, le immagini ad infrarossi delle maschere per la visione notturna dei Navy Seals), l’assenza di musica nell’ultima lunga ripresa (per quasi 25 minuti) della cattura, accompagnano lo spettatore con lo stile ‘virtuale’ da videogame, nella dimensione tutta reale della storia di Maya, di Bin Laden e dell’America.

Trai molti riverberi dell’11 settembre c’è quello che ha riacceso i riflettori sul dibattito culturale e religioso e sulle minoranze che, se talvolta non trovano spazio di espressione nella vita sociale e politica americana, allora ci pensano letteratura e cinema a dar loro voce. Ecco qui Rizwan Kahn del bollywoodiano My name is Khan di Karan Johar.

Kahn è un indiano, musulmano con la sindrome di Asperger, l’abilità a riparare ogni cosa e il ‘vizio’ della sincerità, a tutti i costi. Una promessa fatta all’indomani dell’11 settembre, dopo averne subito le tragiche conseguenze, lo spingerà ad attraversare gli Stati Uniti, sistemando tutto quello che si può sistemare, con una sola scadenza improrogabile: incontrare il Presidente per dirgli «Il mio nome è Kahn e non sono un terrorista». Perché a fare la differenza è la distinzione tra bene e male. I pregiudizi distorcono la percezione e trascinano gli uomini nel torto del male. Quella di Kahn sarà una terapia dell’amore che non conosce ostacoli e che per questo diventa contagiosa. In questo caso la ‘sindrome’ si farà cura, a dimostrazione del fatto che non è la diversità, bensì la ‘paura della diversità’ a rendere difficili le convivenze.

La diversità di Kahn è la stessa di Oskar di Molto forte, incredibilmente vicino, il film di Stephen Daldry dal romanzo di Johnatan Safran Foer.
Oskar è un ragazzino con la sindrome di Asperger convinto che suo padre, morto durante l’attacco alle torri, gli abbia lasciato un messaggio. Dalla perdita scaturisce un viaggio per trovare un senso alle cose che sembrano non averlo o per cercare di espiare una colpa che non c’è ma si avverte, quella sensazione di incompletezza, di inadeguatezza dettata dalla paura.
La paura di non essere all’altezza che si affronta salendo in alto, sulla collinetta di Central Park o sull’altalena, spingendosi sempre più su fino a che sembrerà di volare, e ritrovarsi, poi, con i piedi per terra, con qualche certezza in più in tasca e un po’ di paura in meno.

Di qui riprendere a camminare e “non smettere di cercare”, perché in queste vite costruite sugli ossimori e impregnate di contraddizioni quello che è difficile da trovare merita di essere cercato, consapevoli del fatto che quello che ci affascina e che conta è sempre “molto forte ma incredibilmente vicino”, più di quanto saremmo mai in grado di immaginare.

Oggi come allora, a distanza di 15 anni, l’11 settembre appare chiaramente come uno spartiacque, ha cambiato la storia la sua percezione e il modo di raccontarla e anche l’occhio del cinema ha dovuto modificare il suo sguardo.