Sei persone, indagate a vario titolo ed in concorso per i reati di estorsione ed usura aggravati dal metodo mafioso, nonché detenzione illegale e porto in luogo pubblico di pistola, sono state arrestate da genti del Servizio Centrale Operativo – Sezione Investigativa di Bari e delle Squadre Mobili di Barletta Andria Trani e Bari che hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere e ai domiciliari, emessa dal Gip, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia del capoluogo pugliese. Tra i destinatari dell’ordinanza figurano soggetti ritenuti elementi di vertice del clan Pesce/Pistillo di Andria nei confronti dei quali la stessa Dda, il 29 settembre, aveva già disposto il fermo d’indiziato di delitto in considerazione dell’escalation di violenza registrata dagli inquirenti e il gravissimo pericolo di protrazione delle condotte illecite, ritenendo sussistenti le esigenze cautelari ed il pericolo di fuga. Tra gli indagati colpiti dal provvedimento odierno, è finito agli arresti domiciliari un avvocato a cui le vittime di usura si erano rivolte per ottenere aiuto. Il professionista, secondo l’impostazione accusatoria, anziché adire le vie legali, avrebbe deciso di mettere in contatto le vittime con esponenti della locale criminalità i quali, dopo aver assunto la titolarità del credito, avrebbero attuato una serie di reiterate condotte estorsive con l’impiego del metodo mafioso.

L’avvocato, perfettamente consapevole del calibro criminale di alcuni arrestati, avrebbe favorito un incontro tra le vittime ad alcuni indagati, convocando questi ultimi nel suo studio, proprio per concordare i tempi della restituzione delle somme dovute. In tale occasione sarebbe stata pattuita una dilazione del pagamento della somma di 23.000 euro che, dopo soli venti giorni, sarebbero divenuti 40.000. Nell’occasione il professionista avrebbe agevolato il reato favorendo, con le sue affermazioni, la definizione dell’accordo divenuto estorsivo, attribuendosene addirittura i meriti ed affermando di aver “chiuso l’operazione”, contribuendo alla pressione psicologica nei confronti della vittima. Al prestito sarebbe seguita da un’impennata di violenza da parte degli indagati, tra cui congiunti del clan Pesce, che avrebbero preteso ed ottenuto – passando anche alle vie di fatto – il capitale iniziale e un’ulteriore somma di decine di migliaia di euro richiesta senza alcun titolo anche dai familiari delle vittime.