«Se ce l’avessero raccontata, non ci avremmo creduto. Anzi, forse, in fondo alla nostra anima-display-al-plasma di ex adolescenti cresciuti davanti alle TV, c’era anche la speranza di poter vivere un giorno da “Io sono Leggenda”, in giro per una Milano deserta, con il cane del vicino come unico compagno di avventure e le porte spalancate di tutti i musei, i palazzi, le chiese, le università, le case sfarzose, le Get Fit gratuite e i night club con le sedute in velluto rosso ancora odoranti di fumo di sigarette non elettroniche. E così, tra sogno e realtà, la prima settimana di quarantena (anzi a dirla bene, di quindicena, stando alle stime sui giorni di incubazione del virus) è trascorsa rapida, adrenalinica, spensierata e quasi romantica». E’ il racconto Giulia Manta, manager andriese, residente a Milano.

«Più ci chiedevano di stare chiusi in casa, più in noi cresceva la voglia di uscire. Più pensavamo che “NO, NON MI MERITO DI MORIRE ORA”, più aumentava la nostra voglia di vivere. E ci siamo ritrovati a passare giornate in silenzio, apprezzando il silenzio. Lunghi pomeriggio di telelavoro in solitudine, apprezzando la solitudine.  Abbiamo iniziato a correre, apprezzando la corsa. A fare gli squat davanti allo specchio, apprezzando noi stessi davanti a uno specchio. A cenare a casa, apprezzando la casa.  Abbiamo limitato gli aperitivi fuori, apprezzando l’aperitivo fuori. Ci siamo ritrovati stretti a qualcuno, apprezzando il suo coraggio.  Ci siamo ritrovati soli, apprezzando gli altri. Noi, vittime e carnefici di una #Milanononsiferma, ma che allo stesso tempo #Dovevuoichevada se non ci sono gli aerei e i treni e le palestre e le convention e le discoteche aperte.

E se nemmeno ci fanno tornare a casa, giù in Terronia. Anche lì, per la prima volta ci chiudono le porte pure le nonne. O meglio, siamo noi a scegliere di non bussare alle loro case, preferendo un risottino allo zafferano a focacce, taralli, orecchiette, mozzarelle, parmigiane, ragù e tutto l’amore che c’è in un “Mangia che stai sciupato”, che se solo ci penso, mi scende una lacrima…  Ma me ne faccio una ragione ed mi ordino un Glovo.

Ed eccoci qua, alla seconda settimana di quindicena. Dei sette giorni appena trascorsi rimane il ricordo dell’adrenalina nel vedere il numero dei casi aumentare esponenzialmente.
Ormai ci siamo abituati anche a quello. Non ci impressiona più. D’altronde, la storia ci insegna che siamo sempre più numeri e sempre meno nomi. Quando tutto passerà ci ricorderemo del Paziente 1, senza aver mai saputo il suo nome. E di quello zero, che di nomi intanto forse ne ha già mille.

Si fanno i conti con le percentuali di sintomatici su asintomatici, si stimano le probabilità di contagio, si familiarizza con un tal R0 che dicono essere circa, meno o quasi uguale a 2,6, con denominatori che crescono e numeratori che si adattano ai messaggi dei media.
Ed anche questa volta, della laurea in Relazioni Internazionali io non so che farmene, visto che, tra l’altro, il contesto extraterritoriale ci è ostile: noi lombardi e veneti siamo il flagello dell’umanità, i figli del demonio, gli untori del mondo.

Il romanticismo del vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, nel frattempo, è sbiadito e le storie sembrano tutte relazioni a distanza. A casa ci si saluta con un bacio sulla guancia. E diffidenti si va a dormire sotto le stesse coperte. Tra gli amici Whatsapp è in panne. E le voci vere sono un’eco distorta nei messaggi vocali. Anche tinder zoppica, tra un timido match e un date rimandato a tempi migliori.

Resta qualche nuova abitudine acquisita, la corsetta, gli squat. Resta per qualcuno il telelavoro, che però sta facendo emergere i primi segni evidenti di squilibrio, tra agende piene di meeting virtuali, per cui anche in bagno con noi c’è il pc. Resta la voglia di bere spritz, quella inspiegabilmente aumenta. E mentre scompaiono i baci, gli abbracci, le strette di mano, noi restiamo. Per fortuna. Mai come ora la Normalità si erge a desiderio comune, di poveri e meno poveri, forse anche di ricchi e molto ricchi. Normalità, ti ho avuto fino a ieri. Domani chi lo sa.

E noi? Come saremo quando tutto sarà passato? Saremo normali? Saremo uguali? Saremo migliori? Saremo noi? Saremo altri? Saremo virus? Saremo regine? Saremo pipistrelli forse. No topi. Anzi no, cinesi, saremo cinesi».