«Castel Dei Mondi. Un festival internazionale, una visione perduta

Care Concittadine, cari Concittadini,
Mi rivolgo a tutte e a tutti abbiano a cuore in qualche modo le vicende della nostra città, nella speranza che un dibattito pubblico possa garbatamente avviarsi uscendo dai discorsi privati.

Si è conclusa da un po’ di tempo la XXVI edizione del Festival Internazionale Castel Dei Mondi. La soddisfazione dei curatori e organizzatori è stata resa pubblica e non si scorge alcun elemento di riflessione critica per il futuro. Pertanto, superate le feste patronali e le vicende elettorali, eccomi qui a porgerne qualcuno.

Abbiamo apprezzato la dislocazione logistica ampia delle proposte (centro storico e cosiddetta periferia con i luoghi più svariati), la partecipazione di compagnie locali (i talenti locali non possono essere apprezzati soltanto fuori patria), la mescolanza di proposte e linguaggi (uscire dagli schemi conosciuti serve). Il tutto con una cifra costante: la evidente veste di internazionalizzazione del festival. Un elemento che ha accompagnato sin dalle origini la manifestazione che appunto si chiama «Festival Internazionale di Andria» dal 1997. Ed è meglio dichiararlo subito che chi scrive non ha nulla contro la internazionalità, piuttosto è vero il contrario, avendo portando da molti anni la sede della propria ricerca e formazione accademica internazionale a Parigi, all’EHESS, nel Centro di Ricerche Storiche, dove si incontra tutto il mondo (ma sempre con i piedi ben saldi in questa mia terra).

Purtroppo non si vede più un altro elemento originario e originale della manifestazione, così come fu concepita: il nome stesso, ossia «Castel dei Mondi». Questo sembra del tutto scomparso dall’orizzonte culturale e dalle scelte artistiche degli ultimi anni.
Le proposte di valore e dal carattere internazionale del festival sono di contro visibili a chiunque. Tanto evidenti che questo festival si potrebbe svolgere a Londra a Torino a Venezia a Lecce a Marsiglia a Palermo… e via elencando, e nessuno si accorgerebbe che non siamo ad Andria.

E invece ciò che avrebbe dovuto rendere unico il “nostro festival internazionale” è proprio il suo nome distintivo. Un nome che rimanda senza ombre al Castel del Monte. Potremmo immaginare un festival della Notte della Taranta nascere in un posto diverso da Melpignano e dal Salento? E le rappresentazioni del teatro greco di Siracusa potrebbero essere concepite a Mosca? Sono esempi di manifestazioni culturali profondamente legati alla unicità di un territorio, espressioni delle tradizioni e delle storie di quel territorio. Forme d’arte e di cultura che in un altro posto sarebbero al più riproduzioni. Magari ben eseguite, ma certo non espressioni uniche, originali o testimonianze di quella terra, di quella storia.
Noi qui, in Andria, abbiamo concepito un festival chiamato Castel dei Mondi.

Nella premessa alla presentazione del festival del 1998, l’assessore Nunzio Liso così scriveva: «Castel dei Mondi tiene fede alla intuizione originaria ricalcante lo spirito federiciano della pacifica convivenza delle culture senza che esse rinuncino a conservare la propria specificità ed il proprio carattere rimanendo così libere, indipendenti, autonome». Solo un anno prima, nel 1997, così si scriveva nella I edizione: «(…) Il festival non è soltanto un contenitore di eventi artistici ma un vero e proprio investimento attraverso la cui attivazione ci si prefigge di intrecciare quella feconda interrelazione tra cultura ed economia della quale l’Italia ha saputo per secoli essere maestra al mondo intero (…)». Quindi, in sintesi, si disegnava una economia culturale legata allo spirito federiciano.
Ed anche, sempre nel 1997, si affermava: «Andria è la sede naturale di un evento che aspira a qualificarsi autorevolmente come un annuale appuntamento tra gli artisti e gli studiosi di Paesi che si affacciano sul Mediterraneo e che questo mare sognano d’eleggere a collante dei condivisi ideali e delle comuni opere di pacifica coesistenza. (…) Un laboratorio di pensiero per esplorare le analogie, la dilatazione delle conoscenze, la reciproca comprensione di mondi differenti, sviluppando l’utopia federiciana».

I temi successivi avevano comunque un filo sotteso, sintetizzato in queste parole di Michele Palumbo, nell’agosto 2002, dal titolo: «Otto torri per la pace. L’assonanza è chiara: Castel del Monte è Castel dei Mondi, dei tanti mondi che si scontrano, che al massimo si confrontano e che invece dovrebbero incontrarsi. Incontrarsi in pace, per cogliere e dare importanza a quello che c’è di comune ed è fondamentale, e per individuare, e dimenticare, quello che inutilmente ci divide».

E ancora Palumbo, nel 2002: «Castel del Monte, castello di Pace. Forma ottagonale, otto torri, pure ottagonali, cortile ottagonale. Sulla Murgia dunque c’è un otto di pietra che rilancia l’antico significato dell’ottagono, rapporto tra cielo e terra, tra materia e spirito, tra quadrato e cerchio (…). Quel contatto, quella mediazione, quell’ottagono sono i simboli di un desiderio del finito che aspira all’infinito: la quiete, l’assoluto, la pace. Un ottagono di pietra su una collina, con tante finestre. Per guardare lontano, per guardare dovunque. Per guardare senza limiti e direzioni prestabilite. Una corona di pietre con tante stanze. Dove sedersi e discutere. Con lingue diverse, con idee differenti. Con un unico sogno: la pace».
E infatti, non per niente, senza appartenere a questa nostra terra, senza sentirsi né custodi né interpreti privilegiati di tutto questo, lo staff di Gucci sceglie Castel del Monte nel maggio 2022 come palcoscenico sì internazionale, ma lo interpreta. E lo interpreta perfettamente, lo considera (cum sidera, con le stelle), senza tradire, proiettando universi e costellazioni infinite sulle antiche pietre. Mentre noi, che dovremmo avere le nostre biblioteche colme di libri su Castel del Monte, ancora non l’abbiamo capito. Così ci sentiamo infantilmente fieri per un giorno, ma lasciamo fili e significati dispersi al vento il giorno dopo.

Eppure ce lo stanno spiegando in tanti che il nostro Sud è particolare. Dai grandi meridionalisti del Novecento al più contemporaneo e testardo Lino Patruno, da Gaetano Salvemini a Guglielmo Minervini, da Alessandro Leogrande a Nicola Lagioia, il monito è chiaro: la cultura del Sud non può imitare quella del Nord. La tradizione non va negata ma risvegliata e interpretata. La forza del Sud è diversa.

Ed è persino ancora sconosciuta, persino a noi stessi, come va spiegando Oscar Iarussi da molto tempo, con un verso eterno rubato ad un altro cantore: “Tu non conosci il Sud…”. Le radici qui sono più contaminate, aperte, plurali per la storia stessa che ci ha disegnato. Da millenni. E questo vale ancor più per una regione come la Puglia, isola di una penisola gettata nel mare. Non un continente davanti a noi, non un confine, non un limite. Ma incontro fluido, mescolanza, come ha ben scritto Franco Cassano nel suo oramai classico «pensiero meridiano». Un pensiero legato a doppio filo al Mediterraneo che sta diventando in questi mesi il nuovo centro geopolitico di sfide planetarie.

E allora: perché siamo tutti presenti ad omaggiare i libri e le eredità culturali di questi pensatori, e non siamo poi capaci di vedere le strade concrete indicate dai tanti intellettuali che hanno cercato di svegliare le energie originali del Sud, piuttosto che metterlo sui passi del Nord?

Nel 1996, un anno prima del risveglio cittadino, politico e culturale, che si ritroverà a gestire (o a non gestire) un sito oramai patrimonio dell’Umanità, la Commissione Unesco così scrive: «Castel del Monte possiede un valore eccezionale per la perfezione delle sue forme, l’armonia e la fusione di elementi culturali venuti dal nord Europa, dal mondo musulmano, dall’antichità classica. É un capolavoro unico dell’architettura medievale, che riflette l’umanesimo del suo fondatore: Federico II di Svevia».

E allora, può bastare sentire un refolo di questa identità simbolica e culturale leggendo nella premessa dell’edizione XXVI del festival, che il teatro è relazione con l’altro, «serve ad attraversare le frontiere fra te e me»?

Può bastare apprezzare quel bel venticello più audace, nel progetto teatrale speciale del prossimo triennio: «confrontarsi con i Maestri, scalare questi corpi sapienti fino alle spalle e da lì riuscire a guardare lontano»? Può bastare organizzare tre incontri nel Castello (presumiamo non gratis), a definire una identità originale, unica, espressa dal nome «Castel dei Mondi», mentre si dichiara, sempre nell’edizione XXVI, che «il baricentro del festival è uno spazio aperto e partecipato alla sperimentazione»?

A mio parere no. Non basta. Perché questo baricentro ispirato alla sperimentazione potrebbe benissimo trovarsi in una qualunque altra città europea o americana che non è Andria, una qualunque altra città che non si porta addosso in qualche modo l’eredità di Castel del Monte. E non si venga a dire che amiamo il locale perché in questi discorsi che abbiamo tentato di argomentare di locale non c’è nulla.

Concludendo: in trent’anni non solo non siamo riusciti a creare un solido collegamento turistico- culturale tra Castel del Monte e la città, in fondo normanno-sveva nel suo sorgere come comunità definita, in fondo sede delle sepolture di due imperatrici sveve, prima di diventare angioina, aragonese, ecc. (si veda quello che si fa a Iesi, dove Federico II ci è solo nato, leggendo Raffaele Nigro del 14 settembre: https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/italia/1357859/nel-nome-di-federico-lo-stupor-dei-musei.html). Non solo non siamo riusciti ad animare il nostro magnifico centro storico, mentre i nostri imprenditori andriesi hanno ben investito nei centri storici di Trani, Bisceglie… con risultati pregevoli. Non solo è il sindaco di Trani che si gioca il nostro Castel del Monte fra i suoi attrattori culturali. Ma quell’unico filo che almeno una volta all’anno avrebbe potuto ricordarci lo «spirito dei luoghi» (i nostri!) siamo riusciti a strapparlo.
La nostra città, invece, ha bisogno di raccontare-si la sua storia.

Non solo nel festival, di sicuro. Anche nelle nostre scuole che licenziano tanti giovani cittadini ignoranti di storia cittadina. Anche nei congressi internazionali che non organizziamo più: l’ultimo, magistralmente organizzato dalla Diocesi di Andria sulla Sacra Spina, eredità di una casata angioina, avrebbe potuto restare un appuntamento costante considerando che pure in questo caso abbiamo un unicum che nemmeno Parigi può uguagliare. Anche nei tanti bei libri, agevoli e ben fatti, di storia cittadina che non abbiamo. Anche nelle piazze e nelle ristrutturazioni in corso: sogniamo da anni una scalinata di fiori e piante sulla scalinata della Regina del Monte Carmelo che potrebbe diventare la nostra Piazza di Spagna con quella quinta scenografica che la cinge a corona (in ebraico Karmel vuol dire «Giardino fiorito», «Frutteto» ed anche «Orto di Dio» e il Monte Carmelo in Palestina, cui si accede pure oggi attraverso una lunga scalinata ornata di alberi maestosi, aiuole e fiori, è un luogo conosciuto fin dai tempi del profeta Elia che immagina il Messia rivestito dalle bellezze del Carmelo, decor Carmeli).

Dunque, è di certo necessario rileggere questa nostra storia in forma contemporanea, ma non ignorarla. Siamo certi che si possa interpretare ancor più e ancor meglio l’eredità legata al Castel del Monte, a quell’Imperatore cui il maniero e la nostra città restano legati.
E riprenderci quest’anima che ci siamo persi».