Il teatro, è risaputo, è un gioco basato su una convenzione dettata da un patto silenzioso tra pubblico e attori che fingono entrambi di credere a ciò che accade sulla scena. Un gioco di maschere a camuffamenti fingendo di poter essere qualcun altro, per essere davvero se stessi.

Quando il teatro parla della vita che racconta il teatro, ci si trova di fronte ad un gioco di riflessi moltiplicati all’infinito, come quando si posizionano due specchi, uno di fronte all’altro. La verità sta in fondo in fondo all’ultimo riflesso di cui non percepiamo la fine.
Questa divisione e moltiplicazione, al tempo stesso, della realtà e delle identità sfaccettate altro non sono che volti dietro le maschere che all’occorrenza ci rendono uno, nessuno o centomila persone e personalità diverse.
Su questa annosa tensione tra verità e finzione che sta alla base e regola i rapporti sociali, Pirandello ci ha costruito tutta la sua poetica e non c’è forma artistica più adatta del teatro a portare avanti questo gioco di ruoli e delle parti.
Per questo gli attori e gli autori di Principio Attivo teatro hanno deciso di scrivere l’ultimo atto, il terzo, dei Giganti della montagna di Pirandello, mai scritto, fatta eccezione per qualche suggerimento lasciato dallo stesso autore al figlio Stefano. Un terzo atto andato in scena giovedì 7 settembre a Palazzo Ducale per il pubblico della XXI edizione del Festival Castel dei Mondi.

Il confine tra realtà e finzione comincia a liquefarsi già all’ingresso, dove ad accogliere il pubblico non è qualcuno di Principio attivo Teatro ma del suo eteronimo, la compagnia Opera Nazionale Combattenti che presenta I giganti della montagna atto III, vale a dire una compagnia di attori anziani e disadattati che scelgono di mettere in scena la Favola del Figlio cambiato di Pirandello per riflettere sulla condizione dell’attore e per parlare di teatro, facendolo.
E a proposito d maschere, la favola stessa richiama alla mente la leggenda dell’uomo dalla maschera di ferro nel film di Randall Wallace del 1998, il racconto di uno scambio in culla di un figlio deforme con uno sano e di tutte le conseguenze che ne derivano.

 

Il metateatro pirandelliano nella pièce di Opera Nazionale Combattenti di Principio Attivo Teatro, innesca nel pubblico una serie di elucubrazioni vorticose dovute a questo gioco – quello teatrale – basato sulla fiducia, in cui l’attore deve credere al personaggio mettendosi da parte per farlo vivere e non limitarsi semplicemente a recitarlo, il pubblico dal canto suo deve credere all’attore pur sapendo che è finzione e l’attore a sua volta deve credere al pubblico che ci crede, pur sapendo che il pubblico è consapevole che quello che accade in scena non è reale. Perché quello che accade sul palco non è reale ma è vero.

Le suggestioni e le riflessioni sempre attuali restano quelle sull’importanza del legame tra pubblico e attori, sulla responsabilità degli attori verso il pubblico e sulla capacità dello spettatore di fidarsi degli attori.

La vera natura del teatro sta nell’atmosfera di quel golfo mistico tra proscenio e platea, in uno spazio sospeso e in una dimensione senza tempo, dove la realtà e la finzione perdono entrambe i propri tratti distintivi, una a favore dell’altra.

Indubbia la professionalità degli attori di Principio Attivo Teatro e il lavoro fatto sulla scena e per la scena, ciononostante però, di tanto in tanto sembra venga meno la volontà o forse la possibilità di andare oltre e nel dialogo tra attori e pubblico si percepisce quella sensazione tipica di un messaggio inoltrato e rimasto in coda perché non trova appoggio su una rete stabile. Probabilmente, però, è solo una questione di sintonia e di sintonizzazione tra ruoli e maschere, tanto in sala quanto sul palco, che hanno bisogno di trovare la giusta frequenza. Nulla di nuovo. D’altronde è quanto accade in tutte le tipologie di relazioni umane. La riprova che dietro le maschere teatrali si nascondono sempre, in maniera più o meno convincente, volti e pensieri umani reali.