Commette reato il ristoratore che propone ai propri clienti alimenti surgelati, senza informarli sulla reale natura dei prodotti serviti in tavola. E questo anche se tale clausola non è esplicitata in un rapporto di natura contrattuale con il cliente.

Non ha dubbi la Corte di cassazione (la sentenza che tratta l’argomento è la numero 34783 depositata il 17 luglio) nel ritenere fondata la multa di 200 euro comminata a un ristoratore milanese, colpevole – tanto secondo il Tribunale, quanto secondo la Corte di appello meneghine – di aver propinato a ignari avventori piatti non freschi. Della natura di tali prodotti, infatti, non c’era traccia nel menù, né il proprietario del locale – o chi per lui – si preoccuparono di darne notizia agli avventori.

Contro tale decisione ha presentato ricorso il ristoratore, definendo erronea la valutazione della Corte di appello, che ha ritenuto sussistente l’ipotesi di reato di tentativo di frode in commercio, senza che vi fosse la prova della pattuizione tra esercente e cliente. Secondo il difensore dell’imputato, infatti, la mera detenzione di cibi surgelati non integrerebbe il reato contestato, dal momento che non ha avuto luogo alcuna contrattazione.

Non la pensa così la Cassazione. Secondo i giudici della Suprema Corte, infatti, il contrasto interpretativo in ordine alla configurabilità del tentativo di frode in commercio è obsoleto. Esso risulta infatti superato dalla giurisprudenza più recente, ma ormai consolidata, della Corte, secondo cui «anche la mera disponibilità di alimenti surgelati – non indicati come tali nel menù – nella cucina di un ristorante, configura il tentativo di frode in commercio, indipendentemente dall’inizio di una concreta contrattazione con il singolo avventore».

I giudici dichiarano pertanto il ricorso inammissibile e condannano il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di 2.000 euro a favore della Cassa delle ammende.